Ciro riconosciuto, libretto, Ferrara, Barbieri, 1744

 vedi almen la mia pena,
935guardami una sol volta e poi mi svena.
 ARBACE
 Placati alfine.
 CATONE
                            Or senti.
 Se vuoi che l’ombra mia vada placata
 al suo fatal soggiorno, eterna fede
 giura ad Arbace e giura
940all’oppressore indegno
 della patria e del mondo eterno sdegno.
 MARZIA
 (Morir mi sento).
 CATONE
                                   E pensi ancor? Conosco
 l’animo averso. Ah da costei lontano
 volo a morir.
 MARZIA
                           No, genitore, ascolta. (S’alza)
945Tutto farò. Vuoi che ad Arbace io serbi
 eterna fé? La serberò. Nemica
 di Cesare mi vuoi? Dell’odio mio
 contro lui t’assicuro.
 CATONE
 Giuralo.
 MARZIA
                   (Oh dio!). Su questa man lo giuro. (Prende la mano di Catone e la bacia)
 ARBACE
950Mi fa pietade.
 CATONE
                             Or vieni
 fra queste braccia e prendi
 gli ultimi amplessi miei, figlia infelice.
 Son padre alfine e nel momento estremo
 cede ai moti del sangue
955la mia fortezza. Ah non credea lasciarti
 in Africa così.
 MARZIA
                            Questo è dolore. (Piange)
 CATONE
 Non seduca quel pianto il mio valore.
 
    Per darvi alcun pegno
 d’affetto il mio core
960vi lascia uno sdegno,
 vi lascia un amore;
 ma degno di voi,
 ma degno di me.
 
    Io vissi da forte,
965più viver non lice.
 Almen sia la sorte
 ai figli felice
 se al padre non è. (Parte)
 
 MARZIA
 Seguiamo i passi suoi.
 ARBACE
                                            Non s’abbandoni
970al suo crudel desio. (Parte)
 MARZIA
 Deh serbatemi, o numi, il padre mio. (Parte)
 
 SCENA XIII
 
 CESARE sopra carro trionfale tirato da cavalli, preceduto dall’esercito vittorioso, da’ Numidi, istromenti bellici e popolo
 
 CORO
 
    Già ti cede il mondo intero
 o felice vincitor.
 
    Non v’è regno, non v’è impero
975che resista al tuo valor. (Terminato il coro Cesare scende dal carro)
 
 CESARE e FULVIO
 
 CESARE
 Il vincer o compagni
 non è tutto valor. D’ogni nemico
 risparmiate la vita e con più cura
 conservate in Catone
980l’esempio degli eroi
 a me, alla patria, all’universo, a voi.
 FULVIO
 Cesare non temerne, è già sicura
 la salvezza di lui. Corse il tuo cenno
 per le schiere fedeli.
 
 SCENA ULTIMA
 
 MARZIA, EMILIA e detti
 
 MARZIA
985Lasciatemi o crudeli. (Verso la scena)
 Voglio del padre mio
 l’estremo fato accompagnare anch’io.
 FULVIO
 Che fu?
 CESARE
                  Che ascolto!
 MARZIA
                                          Ah quale oggetto! Ingrato! (A Cesare)
 Va’, se di sangue hai sete, estinto mira
990l’infelice Catone. Eccelsi frutti
 del tuo valor son questi. Il più dell’opra
 ti resta ancor. Via quell’acciaro impugna
 e in faccia a queste squadre
 la disperata figlia unisci al padre. (Piange)
 CESARE
995Ma come!... Per qual mano!...
 Si trovi l’uccisor.
 EMILIA
                                  Lo cerchi invano.
 MARZIA
 Volontario morì. Catone oppresso
 rimase, è ver, ma da Catone istesso.
 CESARE
 Emilia, io giuro ai numi...
 EMILIA
                                                  I numi avranno
1000cura di vendicarci, assai lontano
 forse il colpo non è. Per pace altrui
 l’affretti il cielo e quella man che meno
 credi infedel, quella ti squarci il seno. (Parte)
 CESARE
 Tu Marzia almen rammenta...
 MARZIA
                                                         Io mi rammento
1005che son per te d’ogni speranza priva,
 orfana, desolata e fuggitiva.
 Mi rammento che al padre
 giurai d’odiarti e per maggior tormento
 che un ingrato adorai pur mi rammento. (Parte)
 CESARE
1010Quanto perdo in un dì!
 FULVIO
                                             Quando trionfi
 ogni perdita è lieve.
 CESARE
 Ah se costar mi deve
 i giorni di Catone il serto, il trono,
 ripigliatevi o numi il vostro dono. (Getta il lauro)
 
 Fine dell’opera
 
 
 
 CATONE IN UTICA
 
 
 ARGOMENTO
 
    Doppo la morte di Pompeo il di lui contradittore Giulio Cesare fattosi perpetuo dittatore si vide rendere omaggio non solo da Roma e dal Senato ma da tutto il rimanente del mondo, fuor che da Catone il Minore, senatore romano, che poi fu detto Uticense dal luogo della sua morte, uomo già venerato come padre della patria non meno per l’austera integrità de’ costumi che per il valore, grand’amico di Pompeo ed acerbissimo difensore della libertà romana. Questi avendo raccolti in Utica i pochi avanzi delle disperse milizie pompeiane, con l’aiuto di Giuba re de’ Numidi, amico fedelissimo della repubblica, ebbe costanza di opporsi alla felicità del vincitore. Cesare vi accorse con esercito numeroso e benché in tanta disuguaglianza di forze fosse sicurissimo di opprimerlo, pure invece di minacciarlo, innamorato della virtù di lui, non trascurò offerta o preghiera per renderselo amico ma quegli ricusando aspramente qualunque condizione, quando vide disperata la difesa di Roma, volle almeno morir libero uccidendo sé stesso. Cesare nella morte di lui diede segni di altissimo dolore, lasciando in dubbio alla posterità se fosse più ammirabile la generosità di lui, che venerò a sì alto segno la virtù ne’ suoi nemici, o la costanza dell’altro che non volle sopravvivere alla libertà della patria.
    Tutto ciò si ha dagli storici; il resto è verisimile.
    Per comodo della musica cambieremo il nome di Cornelia, vedova di Pompeo, in Emilia e quello del giovane Iuba, figlio dell’altro Iuba re di Numidia, in Arbace.
    La scena è in Utica città dell’Africa.
 
 
 INTERLOCUTORI
 
 CATONE
 CESARE
 MARZIA figlia di Catone ed amante occulta di Cesare
 ARBACE principe reale di Numidia, amico di Catone ed amante di Marzia
 EMILIA vedova di Pompeo
 FULVIO legato del Senato romano a Catone, del partito di Cesare ed amante di Emilia
 
 
 ATTO PRIMO
 
 SCENA PRIMA
 
 Sala d’armi.
 
 CATONE, MARZIA, ARBACE
 
 MARZIA
 Perché sì mesto, o padre? Oppressa è Roma
 se giunge a vacillar la tua costanza.
 Parla; al cor d’una figlia
 la sventura maggiore
5di tutte le sventure è il tuo dolore.
 ARBACE
 Signor, che pensi? In quel silenzio appena
 riconosco Catone. Ov’è lo sdegno
 figlio di tua virtù? Dov’è il coraggio?
 Dove l’anima intrepida e feroce?
10Ah se del tuo gran core
 l’ardir primiero è in qualche parte estinto,
 non v’è più libertà, Cesare ha vinto.
 CATONE
 Figlia, amico, non sempre
 la mestizia, il silenzio
15è segno di viltade; e agli occhi altrui
 si confondon sovente
 la prudenza e il timor. Se penso e taccio,
 taccio e penso a ragion. Tutto ha sconvolto
 di Cesare il furor. Per lui Farsaglia
20è di sangue civil tiepida ancora;
 per lui più non s’adora
 Roma, il Senato, al di cui cenno un giorno
 tremava il Parto, impallidia lo Scita;
 da barbara ferita
25per lui sugli occhi al traditor d’Egitto
 cadde Pompeo trafitto; e solo in queste
 d’Utica anguste mura
 mal sicuro riparo
 trova alla sua ruina
30la fuggitiva libertà latina.
 Cesare abbiamo a fronte
 che d’assedio ne stringe; i nostri armati
 pochi sono e mal fidi; in me ripone
 la speme che le avanza
35Roma che geme al suo tiranno in braccio;
 e chiedete ragion s’io penso e taccio?
 MARZIA
 Ma non viene a momenti
 Cesare a te?
 ARBACE
                          Di favellarti ei chiede;
 dunque pace vorrà.
 CATONE
                                      Sperate invano
40che abbandoni una volta
 il desio di regnar. Troppo gli costa
 per deporlo in un punto.
 MARZIA
 Chi sa? Figlio è di Roma
 Cesare ancor.
 CATONE
                            Ma un dispietato figlio
45che serva la desia, ma un figlio ingrato
 che per domarla appieno
 non sente orror nel lacerarle il seno.
 ARBACE
 Tutta Roma non vinse
 Cesare ancora. A superar gli resta
50il riparo più forte al suo furore.
 CATONE
 E che gli resta mai?
 ARBACE
                                       Resta il tuo core.
 Forse più timoroso
 verrà dinanzi al tuo severo ciglio
 che all’Asia tutta ed all’Europa armata.
55E se dal tuo consiglio
 regolati saranno, ultima speme
 non sono i miei Numidi. Hanno altre volte
 sotto duce minor saputo anch’essi
 all’aquile latine in questo suolo
60mostrar la fronte e trattenere il volo.
 CATONE
 M’è noto; e il più nascondi,
 tacendo il tuo valor, l’anima grande
 a cui, fuor che la sorte
 d’esser figlia di Roma, altro non manca.
 ARBACE
65Deh tu, signor, correggi
 questa colpa non mia. La tua virtude
 nel sen di Marzia io da gran tempo adoro.
 Nuovo legame aggiungi
 alla nostra amistà, soffri ch’io porga
70di sposo a lei la mano;
 non mi sdegni la figlia e son romano.
 MARZIA
 Come! Allor che paventa
 la nostra libertà l’ultimo fato,
 che a’ nostri danni armato
75arde il mondo di bellici furori,
 parla Arbace di nozze e chiede amori?
 CATONE
 Deggion le nozze, o figlia,
 più al pubblico riposo
 che alla scelta servir del genio altrui.
80Con tal cambio di affetti
 si meschiano le cure. Ognun difende
 parte di sé nell’altro, onde muniti
 di nodo sì tenace
 crescon gl’imperi e stanno i regni in pace.
 ARBACE
85Felice me, se approva
 al par di te con men turbate ciglia
 Marzia gli affetti miei.
 CATONE
                                            Marzia è mia figlia.
 MARZIA
 Perché tua figlia io sono e son romana,
 custodisco gelosa
90le ragioni, il decoro
 della patria e del sangue. E tu vorrai
 che la tua prole istessa, una che nacque
 cittadina di Roma e fu nudrita
 all’aura trionfal del Campidoglio,
95scenda al nodo d’un re?
 ARBACE
                                              (Che bell’orgoglio!)
 CATONE
 Come cangia la sorte
 si cangiano i costumi. In ogni tempo
 tanto fasto non giova; e a te non lice
 esaminar la volontà del padre.
100Principe, non temer, fra poco avrai
 Marzia tua sposa. In queste braccia intanto (Catone abbraccia Arbace)
 del mio paterno amore
 prendi il pegno primiero e ti rammenta
 ch’oggi Roma è tua patria. Il tuo dovere,
105or che romano sei,
 è di salvarla o di cader con lei.
 
    Con sì bel nome in fronte
 combatterai più forte.
 Rispetterà la sorte
110di Roma un figlio in te.
 
    Libero vivi; e quando
 tel nieghi il fato ancora,
 almen come si mora
 apprenderai da me. (Parte)
 
 SCENA II
 
 MARZIA, ARBACE
 
 ARBACE
115Poveri affetti miei,
 se non sanno impetrar dal tuo bel core
 pietà, se non amore.
 MARZIA
 M’ami, Arbace?
 ARBACE
                                Se t’amo! E così poco
 si spiegano i miei sguardi
120che se il labbro nol dice ancor nol sai?
 MARZIA
 Ma qual prova finora
 ebbi dell’amor tuo?
 ARBACE
                                       Nulla chiedesti.
 MARZIA
 E s’io chiedessi, o prence,
 questa prova or da te?
 ARBACE
                                           Fuor che lasciarti
125tutto farò.
 MARZIA
                      Già sai
 qual di eseguir necessità ti stringa,
 se mi sproni a parlar.
 ARBACE
                                          Parla; ne brami
 sicurezza maggior? Su la mia fede,
 sul mio onor ti assicuro;
130il giuro ai numi, a que’ begli occhi il giuro.
 Che mai chieder mi puoi? La vita? Il soglio?
 Imponi, eseguirò.
 MARZIA
                                    Tanto non voglio.
 Bramo che in questo giorno
 non si parli di nozze; a tua richiesta
135il padre vi acconsenta;
 non sappia ch’io l’imposi e son contenta.
 ARBACE
 Perché voler ch’io stesso
 la mia felicità tanto allontani?
 MARZIA
 Il merto di ubbidir perde chi chiede
140la ragion del comando.
 ARBACE
                                            Ah so ben io
 qual ne sia la cagion. Cesare ancora
 è la tua fiamma. All’amor mio perdona
 un libero parlar; so che l’amasti.
 Oggi in Utica ei viene; oggi ti spiace
145che si parli di nozze; i miei sponsali
 oggi ricusi al genitore in faccia;
 e vuoi da me ch’io t’ubbidisca e taccia?
 MARZIA
 Forse i sospetti tuoi
 dileguare io potrei ma tanto ancora
150non deggio a te. Servi al mio cenno e pensa
 a quanto promettesti, a quanto imposi.
 ARBACE
 Ma poi quegli occhi amati
 mi saranno pietosi o pur sdegnati?
 MARZIA
 
    Non ti minaccio sdegno,
155non ti prometto amor.
 Dammi di fede un pegno,
 fidati del mio cor,
 vedrò se m’ami.
 
    E di premiarti poi
160resti la cura a me
 né domandar mercé
 se pur la brami. (Parte)
 
 SCENA III
 
 ARBACE
 
 ARBACE
 Che giurai! Che promisi! A qual comando
 ubbidir mi conviene! E chi mai vide
165più misero di me? La mia tiranna
 quasi sugli occhi miei si vanta infida
 ed io l’armi le porgo, onde m’uccida.
 
    Che legge spietata,
 che sorte crudele
170d’un’alma piagata,
 d’un core fedele
 servire, soffrire,
 tacere e penar!
 
    Se poi l’infelice
175domanda mercede,
 si sprezza, si dice
 che troppo richiede,
 che impari ad amar. (Parte)
 
 SCENA IV
 
  Parte interna delle mura di Utica con porta della città in prospetto chiusa da un ponte che poi si abbassa.
 
 CATONE, poi CESARE e FULVIO
 
 CATONE
 Dunque Cesare venga. Io non intendo
180qual cagion lo conduca. È inganno? È tema?
 No d’un romano in petto
 non giunge a tanto ambizion d’impero
 che dia ricetto a così vil pensiero. (Cala il ponte e si vede venir Cesare e Fulvio)
 CESARE
 Con cento squadre e cento
185a mia difesa armate in campo aperto
 non mi presento a te. Senz’armi e solo
 sicuro di tua fede
 fra le mura nemiche io porto il piede.
 Tanto Cesare onora
190la virtù di Catone emulo ancora.
 CATONE
 Mi conosci abbastanza, onde in fidarti
 nulla più del dovere a me rendesti.
 Di che temer potresti?
 In Egitto non sei; qui delle genti
195si serba ancor l’universal ragione;
 né vi son Tolomei dov’è Catone.
 CESARE
 È ver, noto mi sei. Già il tuo gran nome
 fin da’ prim’anni a venerare appresi.
 In cento bocche intesi
200della patria chiamarti
 padre e sostegno e delle antiche leggi
 rigido difensor. Fu poi la sorte
 prodiga all’armi mie del suo favore.
 Ma l’acquisto maggiore,
205per cui contento ogni altro acquisto io cedo,
 è l’amicizia tua; questa ti chiedo.
 FULVIO
 E il Senato la chiede; a voi m’invia
 nuncio del suo volere. È tempo ormai
 che da’ privati sdegni
210la combattuta patria abbia riposo.
 Scema d’abitatori
 è già l’Italia afflitta; alle campagne
 già mancano i cultori;
 manca il ferro agli aratri, in uso d’armi
215tutto il furor converte; e mentre Roma
 con le sue mani il proprio sen divide,
 gode l’Asia incostante, Africa ride.
 CATONE
 Chi vuol Catone amico
 facilmente l’avrà; sia fido a Roma.
 CESARE
220Chi più fido di me! Spargo per lei
 il sudor da gran tempo e il sangue mio.
 Son io quegli, son io che sugli alpestri
 gioghi del Tauro, ov’è più al ciel vicino,
 di Marte e di Quirino
225fe’ risuonar la prima volta il nome.
 Il gelido Britanno
 per me le ignote ancora
 romane insegne a venerare apprese;
 e dal clima remoto
230se venni poi...
 CATONE
                             Già tutto il resto è noto.
 Di tue famose imprese
 godiamo i frutti e in ogni parte abbiamo
 pegni dell’amor tuo. Dunque mi credi
 mal accorto così ch’io non ravvisi
235velato di virtude il tuo disegno?
 So che il desio di regno,
 che il tirannico genio, onde infelici
 tanti hai reso fin qui...
 FULVIO
                                            Signor, che dici?
 Di ricomporre i disuniti affetti
240non son queste le vie; di pace io venni,
 non di risse ministro.
 CATONE
                                          E ben si parli.
 (Udiam che dir potrà).
 FULVIO
                                             (Tanta virtude
 troppo acerbo lo rende). (A Cesare)
 CESARE
 (Io l’ammiro però, se ben m’offende). (A Fulvio)
245Pende il mondo diviso
 dal tuo, dal cenno mio; sol che la nostra
 amicizia si stringa il tutto è in pace.
 Se del sangue latino
 qualche pietà pur senti, i sensi miei
250placido ascolterai.
 
 SCENA V
 
 EMILIA e detti
 
 EMILIA
                                    Che veggio, o dei!
 Questo è dunque l’asilo
 ch’io sperai da Catone! Un luogo istesso
 la sventurata accoglie
 vedova di Pompeo col suo nemico!
255Ove son le promesse? (A Catone)
 Ove la mia vendetta?
 Così sveni il tiranno?
 Così d’Emilia il difensor tu sei?
 Fin di pace si parla in faccia a lei?
 FULVIO
260(In mezzo alle sventure
 è bella ancor).
 CATONE
                             Tanto trasporto, Emilia,
 perdono al tuo dolor. Quando l’obblio
 delle private offese
 util si rende al comun bene, è giusto.
 EMILIA
265Qual utile, qual fede
 sperar si può dall’oppressor di Roma?
 CESARE
 A Cesare oppressor? Chi l’ombra errante
 con la funebre pompa
 placò del gran Pompeo? Forse ti tolsi
270armi, navi e compagni? A te non resi
 e libertade e vita?
 EMILIA
                                    Io non la chiesi.
 Ma giacché vivo ancor, saprò valermi
 contro te del tuo don. Finché non vegga
 la tua testa recisa, e terre e mari
275scorrerò disperata; in ogni parte
 lascerò le mie furie; e tanta guerra
 contro ti desterò che non rimanga
 più nel mondo per te sicura sede.
 Sai che già tel promisi, io serbo fede.
 CATONE
280Modera il tuo furor.
 CESARE
                                       Se tanto ancora
 sei sdegnata con me, sei troppo ingiusta.
 EMILIA
 Ingiusta? E tu non sei
 la cagion de’ miei mali? Il mio consorte
 tua vittima non fu? Forse presente
285non ero allor che dalla nave ei scese
 sul picciolo del Nilo infido legno?
 Io con quest’occhi, io vidi
 splender l’infame acciaro,
 che il sen gli aperse, e impetuoso il sangue
290macchiar fuggendo al traditore il volto.
 Fra’ barbari omicidi
 non mi gittai, che questo ancor mi tolse
 l’onda frapposta e la pietade altrui.
 Né v’era, il credo appena,
295di tanto già seguace mondo un solo
 che potesse a Pompeo chiuder le ciglia;
 tanto invidian gli dei chi lor somiglia!
 FULVIO
 (Pietà mi desta).
 CESARE
                                  Io non ho parte alcuna
 di Tolomeo nell’empietade. Assai
300la vendetta ch’io presi è manifesta.
 E sa il ciel, tu lo sai
 s’io piansi allor su l’onorata testa.
 CATONE
 Ma chi sa se piangesti
 per gioia o per dolor? La gioia ancora
305ha le lagrime sue.
 CESARE
                                   Pompeo felice,
 invidio il tuo morir, se fu bastante
 a farti meritar Catone amico.
 EMILIA
 Di sì nobile invidia
 no, capace non sei tu che potesti
310contro la patria tua rivolger l’armi.
 FULVIO
 Signor, questo non parmi
 tempo opportuno a favellar di pace.
 Chiede l’affar più solitaria parte
 e mente più serena.
 CATONE
                                       Al mio soggiorno
315dunque in breve io vi attendo. E tu frattanto
 pensa, Emilia, che tutto
 lasciar l’affanno in libertà non dei,
 giacché ti fe’ la sorte
 figlia a Scipione ed a Pompeo consorte.
 
320   Si sgomenti alle sue pene
 il pensier di donna imbelle
 che vil sangue ha nelle vene,
 che non vanta un nobil cor.
 
    Se lo sdegno delle stelle
325tollerar meglio non sai,
 arrossir troppo farai
 e lo sposo e il genitor. (Parte)
 
 SCENA VI
 
 CESARE, EMILIA e FULVIO
 
 CESARE
 Tu taci, Emilia? In quel silenzio io spero
 un principio di calma.
 EMILIA
330T’inganni. Allorch’io taccio,
 medito le vendette.
 FULVIO
                                      E non ti plachi
 d’un vincitor sì generoso a fronte?
 EMILIA
 Io placarmi! Anzi sempre in faccia a lui,
 se fosse ancor di mille squadre cinto,
335dirò che l’odio e che lo voglio estinto.
 CESARE
 
    Nell’ardire che il seno ti accende
 così bello lo sdegno si rende
 che in un punto mi desti nel petto
 meraviglia, rispetto e pietà.
 
340   Tu m’insegni con quanta costanza
 si contrasti alla sorte inumana,
 e che sono ad un’alma romana
 nomi ignoti timore e viltà. (Parte)
 
 SCENA VII
 
 EMILIA e FULVIO
 
 EMILIA
 Quanto da te diverso
345io ti riveggo, o Fulvio! E chi ti rese
 di Cesare seguace, a me nemico?
 FULVIO
 Allorch’io servo a Roma,
 non son nemico a te. Troppo ho nell’alma
 de’ pregi tuoi la bella immago impressa.
350E s’io men di rispetto
 avessi al tuo dolor, direi che ancora
 Emilia m’innamora,
 che adesso ardo per lei qual arsi pria
 che la sventura mia
355a Pompeo la donasse; e le direi
 ch’è bella anche nel duolo agli occhi miei.
 EMILIA
 Mal si accordano insieme
 di Cesare l’amico
 e l’amante d’Emilia; o lui difendi
360o vendica il mio sposo; a questo prezzo
 ti permetto che m’ami.
 FULVIO
                                             (Ah che mi chiede!
 Si lusinghi).
 EMILIA
                          Che pensi?
 FULVIO
 Penso che non dovresti
 dubitar di mia fé.
 EMILIA
                                    Dunque sarai
365ministro del mio sdegno?
 FULVIO
                                                 Un tuo comando
 prova ne faccia.
 EMILIA
                                Io voglio
 Cesare estinto. Or posso
 di te fidarmi?
 FULVIO
                             Ogni altra man sarebbe
 men fida della mia.
 EMILIA
                                       Questo per ora
370da te mi basta. Inosservati altrove
 i mezzi a vendicarmi
 sceglier potremo.
 FULVIO
                                   Intanto
 potrò spiegarti almeno
 tutti gli affetti miei.
 EMILIA
                                       Non è ancor tempo
375che tu parli d’amore e ch’io ti ascolti.
 Pria si adempia il disegno e allor più lieta
 forse ti ascolterò. Qual mai può darti
 speranza un’infelice
 cinta di bruno ammanto,
380con l’odio in petto e su le ciglia il pianto?
 FULVIO
 
    Piangendo ancora
 rinascer suole
 la bella aurora
 nunzia del sole;
385e pur conduce
 sereno il dì.
 
    Tal fra le lagrime
 fatta serena,
 può da quest’anima
390fugar la pena
 la cara luce
 che m’invaghì. (Parte)
 
 SCENA VIII
 
 EMILIA
 
 EMILIA
 Se gli altrui folli amori ascolto e soffro
 e s’io respiro ancor dopo il tuo fato,
395perdona, o sposo amato,
 perdona; a vendicarmi
 non mi restano altr’armi. A te gli affetti
 tutti donai, per te gli serbo; e quando
 termini il viver mio, saranno ancora
400al primo nodo avvinti,
 s’è ver ch’oltre la tomba aman gli estinti.
 
    O nel sen di qualche stella
 o sul margine di Lete
 se mi attendi, anima bella,
405non sdegnarti, anch’io verrò.
 
    Sì verrò; ma voglio pria
 che preceda all’ombra mia
 l’ombra rea di quel tiranno
 che a tuo danno il mondo armò. (Parte)
 
 SCENA IX
 
  Fabbriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.
 
 CESARE e FULVIO
 
 CESARE
410Giunse dunque a tentarti
 d’infedeltade Emilia? E tanto spera
 dall’amor tuo?
 FULVIO
                              Sì; ma per quanto io l’ami,
 amo più la mia gloria.
 Infido a te mi finsi
415per sicurezza tua, così palesi
 saranno i suoi disegni.
 CESARE
                                            A Fulvio amico
 tutto fido me stesso. Or mentre io vado
 il campo a riveder, qui resta e siegui
 il suo core a scoprir.
 FULVIO
                                       Tu parti?
 CESARE
                                                           Io deggio
420prevenire i tumulti
 che la tardanza mia destar potrebbe.
 FULVIO
 E Catone?
 CESARE
                      A lui vanne e l’assicura
 che pria che giunga a mezzo il corso il giorno
 a lui farò ritorno.
 FULVIO
                                  Andrò; ma veggio
425Marzia che viene.
 CESARE
                                   In libertà mi lascia
 un momento con lei; finora invano
 la ricercai. T’è noto...
 FULVIO
                                         Io so che l’ami,
 so che t’adora anch’ella e so per prova
 qual piacer si ritrova
430doppo lunga stagion nel dolce istante
 che rivede il suo bene un fido amante. (Parte)
 
 SCENA X
 
 MARZIA e CESARE
 
 CESARE
 Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei
 appena il credo e temo
 che per costume a figurarti avvezzo
435mi lusinghi il pensiero. Oh quante volte
 fra l’armi e le vicende in cui m’avvolse
 l’incostante fortuna a te pensai.
 E tu spargesti mai
 un sospiro per me? Rammenti ancora
440la nostra fiamma? Al par di tua bellezza
 crebbe il tuo amore o pur scemò? Qual parte
 hanno gli affetti miei
 negli affetti di Marzia?
 MARZIA
                                             E tu chi sei?
 CESARE
 Chi sono! E qual richiesta! È scherzo? È sogno?
445Così tu di pensiero
 o così di sembianza io mi cangiai?
 Non mi ravvisi?
 MARZIA
                                 Io non ti vidi mai.
 CESARE
 Cesare non vedesti?
 Cesare non ravvisi?
450Quello che tanto amasti,
 quello a cui tu giurasti
 per volger d’anni o per destin rubello
 di non essergli infida?
 MARZIA
                                            E tu sei quello?
 No, tu quello non sei, n’usurpi il nome.
455Un Cesare adorai, nol niego; ed era
 della patria il sostegno,
 l’onor del Campidoglio,
 il terror de’ nemici,
 la delizia di Roma,
460del mondo intier dolce speranza e mia.
 Questo Cesare amai; questo mi piacque
 pria che l’avesse il ciel da me diviso;
 questo Cesare torni e lo ravviso.
 CESARE
 Sempre l’istesso io sono; e se al tuo sguardo
465più non sembro l’istesso, o pria l’amore
 o t’inganna or lo sdegno. All’armi, all’ire
 mi spinse a mio dispetto
 più che la scelta mia l’invidia altrui.
 Combattei per difesa. A te dovevo
470conservar questa vita; e se pugnando
 scorsi poi vincitor di regno in regno,
 sperai farmi così di te più degno.
 MARZIA
 Molto ti deggio inver; se ingiusta offesi
 il tuo cor generoso, a me perdona.
475Io semplice finora
 sempre credei che si facesse guerra
 solamente a’ nemici e non spiegai
 come pegni amorosi i tuoi furori.
 Ma in avvenir l’affetto
480d’un grand’eroe che viva innamorato
 conoscerò così. Barbaro, ingrato.
 CESARE
 Che far di più dovrei? Supplice io stesso
 vengo a chiedervi pace,
 quando potrei... Tu sai...
 MARZIA
                                               So che con l’armi
485però la chiedi.
 CESARE
                             E disarmato all’ira
 de’ nemici ho da espormi?
 MARZIA
                                                   Eh di’ che il solo
 impaccio al tuo disegno è il padre mio;
 di’ che lo brami estinto e che non soffri
 nel mondo che vincesti
490che sol Catone a soggiogar ti resti.
 CESARE
 Or m’ascolta e perdona
 un sincero parlar. Quanto me stesso
 io t’amo, è ver, ma la beltà del volto
 non fu che mi legò; Catone adoro
495nel sen di Marzia; il tuo bel core ammiro
 come parte del suo; qua più mi trasse
 l’amicizia per lui che il nostro amore.
 E se, lascia ch’io possa
 dirti ancor più, se m’imponesse un nume
500di perdere un di voi, morir d’affanno
 nella scelta potrei;
 ma Catone e non Marzia io salverei.
 MARZIA
 Ecco il Cesare mio. Comincio adesso
 a ravvisarlo in te; così mi piaci,
505così m’innamorasti. Ama Catone,
 io non ne son gelosa. Un tal rivale
 se divide il tuo core,
 più degno sei ch’io ti conservi amore.
 CESARE
 Quest’è troppa vittoria. Ah mal da tanta
510generosa virtude io mi difendo.
 Ti rassicura; io penso
 al tuo riposo; e pria che cada il giorno
 dall’opre mie vedrai
 che son Cesare ancora e che t’amai.
 
515   Chi un dolce amor condanna
 vegga la mia nemica;
 l’ascolti e poi mi dica
 s’è debolezza amor.
 
    Quando da sì bel fonte
520derivano gli affetti,
 vi son gli eroi soggetti,
 amano i numi ancor. (Parte)
 
 SCENA XI
 
 MARZIA, poi CATONE
 
 MARZIA
 Mie perdute speranze,
 rinascer tutte entro il mio sen vi sento.
525Chi sa. Gran parte ancora
 resta di questo dì. Placato il padre
 se all’amistà di Cesare si appiglia,
 non m’avrà forse Arbace.
 CATONE
                                                Andiamo, o figlia.
 MARZIA
 Dove?
 CATONE
                Al tempio, alle nozze
530del principe numida.
 MARZIA
                                          (Oh dei!) Ma come
 sollecito così?
 CATONE
                            Non soffre indugio
 la nostra sorte.
 MARZIA
                              (Arbace infido!) All’ara
 forse il prence non giunse.
 CATONE
                                                   Un mio fedele
 già corse ad affrettarlo. (In atto di partire)
 MARZIA
                                              (Ah che tormento!)
 
 SCENA XII
 
 ARBACE e detti
 
 ARBACE
535Deh t’arresta, o signor.
 MARZIA
                                            (Sarai contento). (Piano ad Arbace)
 CATONE
 Vieni, o principe, andiamo
 a compir l’imeneo; potea più pronto
 donar quanto promisi?
 ARBACE
                                             A sì gran dono
 è poco il sangue mio; ma se pur vuoi
540che si renda più grato, all’altra aurora
 differirlo ti piaccia. Oggi si tratta
 grave affar co’ nemici e il nuovo giorno
 tutto al piacer può consacrarsi intero.
 CATONE
 No; già fumano l’are;
545son raccolti i ministri; ed importuna
 sarebbe ogni dimora.
 ARBACE
 (Marzia, che deggio far?) (Piano a Marzia)
 MARZIA
                                                  (Mel chiedi ancora?) (Piano ad Arbace)
 ARBACE
 Il più, signor, concedi
 e mi contendi il meno?
 CATONE
                                             E tanto importa
550a te l’indugio?
 ARBACE
                             Oh dio!... Non sai... (Che pena!)
 CATONE
 Ma qual freddezza è questa! Io non l’intendo.
 Fosse Marzia l’audace
 che si oppone a’ tuoi voti? (Ad Arbace)
 MARZIA
                                                   Io! Parli Arbace.
 ARBACE
 No, son io che ti prego.